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Dopo l’intervista di Nicola Lagioia per «Repubblica-Bari», un altro pugliese doc tenta una riflessione, dalle pagine del «Corriere della Sera» nazionale, sugli accadimenti che hanno decretato negli ultimi giorni la fine della primavera pugliese, e la conseguente delusione per una serie di aspettative disattese.
La primavera pugliese sta vivendo un processo involutivo che rischia di comprometterne frutti e radici. Non si tratta degli scandali degli ultimi mesi, ma dello scollamento tra la politica di Nichi Vendola, divenuta più astratta in un’ottica nazionale, e la società civile, il territorio, il ceto intellettuale che tanta fiducia ha riposto in lui e ora può sentirsi spiazzato, come ha colto Luca Mastrantonio sul Corriere della Sera di ieri.
Qual era il maggior pregio della primavera pugliese? Aver sperimentato una rottura in una regione che era uno dei principali laboratori del berlusconismo meridionale. Come? Con un mix di buona amministrazione, effervescenza culturale, partecipazione allargata, efficace lavoro di alcuni tecnici. Una sorta di radical-riformismo amministrativo che ha dato il suo meglio, ad esempio, nell’affrontare i problemi di salute, povertà e immigrazione. Questo è stato oscurato dal «ciclone Tarantini», e dagli scandali recenti. Ma va difeso, non bruciato in una fuga in avanti nella politica nazionale.
Durante le primarie, nel 2010, il documento di sostegno a Vendola firmato a sinistra da tanti intellettuali e rappresentanti della società civile pugliese, da Franco Cassano a Mario Desiati, e nazionale, raggiunse in pochi giorni 10 mila firme. Ma ora Vendola intende lasciare la Puglia prima della scadenza del secondo mandato per correre alle politiche. Più che una svolta lideristica, già criticata da Cassano, c’è un errore «veltroniano», non nuovo a sinistra. Buttarsi nell’agone nazionale forte di un’esperienza locale che, però, rischia di venire lasciata a metà e senza eredità. Sarebbe un doppio fallimento: nazionale e locale.
Che fare? Se la legge elettorale pugliese fosse come quella lombarda, chiederei a Vendola di candidarsi per un terzo mandato e mettere da parte i giochi nazionali. Ma la legge pugliese non lo permette. E allora deve concludere il suo mandato. A maggior ragione, ora che lo scandalo «cozze pelose» ha azzoppato la candidatura di Emiliano alla Regione e aperto oggettivamente un enorme caos che il Pd non può ricomporre.
La domanda per Vendola, allora, oggi è questa: non abbiamo bisogno di rinnovare quell’intreccio locale tra buona amministrazione, intellettuali e tecnici, per riqualificare la politica? Non è meglio continuare su questa strada anziché criticare solo sul piano verbale il governo dei tecnici?
Pur non facendo parte della squadra di Vendola, e non avendo incarichi, ho potuto osservare da vicino la macchina regionale, soprattutto negli assessorati Welfare, Salute, Mediterraneo, e nell’impegno verso i non-garantiti. Da compagno di strada, ma con uno sguardo da fuori. C’è tanto lavoro anonimo che oggettivamente ha prodotto una rottura e oggi va «protetto». Uso convintamente questa parola. Se il vendolismo si slega da tutto ciò, rischia di rimanere solo narrazione che fluttua nell’aria. E può piacere ad artisti, registi e intellettuali mediaticamente più in vista, da Serena Dandini ad Antonio Scurati, che ne hanno sostenuto le ragioni, ma di certo non basta alla Puglia. E al centrosinistra.